MRM: La Pace Inquieta, come uno scrigno,
raccoglie in sé tanti e svariati sentimenti, quante sono le storie e le vite
che si intrecciano, si snodano e poi si mescolano al suo interno. Lei, Cozzi, porta
per mano il lettore attraverso i luoghi in cui la storia si snoda, rendendolo
parte della stessa, con le sue descrizioni minuziose dei paesaggi e delle
atmosfere; la magia più grande, di questo scrigno, però, credo sia la capacita
di "sentire" i personaggi, via via, nel corso della lettura. Ecco, mi
piacerebbe sapere se questo è voluto o se è il suo personale modo di arrivare
al cuore "dell'altro", in generale, sempre.
SC: Prima di tutto cerco di arrivare al
mio cuore: durante la fase "creativa", quella per intenderci in cui
stendo la prima versione del romanzo, mi calo nella storia e vivo in essa,
cercando di percepire ciò che il personaggio mi vuole dire. Parlare di
introspezione forse é troppo. Ma si può parlare di immedesimazione e di
relazione con i personaggi; voglio capirne le emozioni, le aspettative, quello
che hanno dietro, anche se poi questo non verrà scritto nel romanzo. Inoltre i
protagonisti delle storie che scrivo sono una specie di specchio nella quale
rifletto la mia personalità. Specchi in frantumi che, di conseguenza,
riflettono confusamente solo parti di me.
MRM: Ovviamente, ogni lettore 'legge',
'vive' un libro in base a quello che è il suo vissuto: ad ognuno di noi è
riservata una chiave di lettura differente, soprattutto relativamente ad un
giallo, come in questo caso. Però il rendere quasi visibili, come in un film, i
protagonisti della storia, è come mettere a suo agio il lettore, come far
scegliere a lui ed a lui solo se e quanto essere coinvolto.
Personalmente, ritengo che un bravo
scrittore, venga fuori proprio qui, tanto per parafrasare Salinger.
SC: Raccolgo volentieri la lusinga. Ogni
libro ha differenti chiavi di lettura. Ne “La pace inquieta” c’è la chiave di
lettura pacifista, la chiave poliziesca, forse anche quella sentimentale: sta
al lettore scegliere se utilizzarne una sola, o coglierle tutte. Lei parla di
film; in effetti il mio modo di scrivere ha un'impronta cinematografica. Vivo
di immagini che trasferisco poi su carta. E' un percorso opposto a quello della
sceneggiatura, campo nel quale mi piacerebbe prima o poi, cimentarmi.
MRM: Esatto, il suo romanzo si
presterebbe facilmente a fotogrammi e primi piani. Il Commissario Ripamonti, ad
esempio. E' sicuramente un uomo di altri tempi, un uomo schivo, introverso,
elegante, colto, al quale "(..)
l'estraniarsi dalla vita sociale (..) permetteva di sprofondare lentamente in
un limbo, e ciò lo rendeva quasi insensibile". Mi viene facile
associare l'immagine da lei descritta del Ripamonti a quella di un uomo che si
distacca dalla realtà per affrontarla dal di fuori, come una sorta di scudo
protettivo.
SC: E' quello che cerco di fare quando
scrivo. Quando ho scritto “La pace inquieta” vivevo a Mandello del Lario, dove
avevo una piccola casa vicina al lago. Soffro di insonnia, così nelle notti di
novembre passeggiavo per il paese, immerso nella nebbia o nella pioggia
sottile, fumavo sigari toscani e immaginavo scene e personaggi. Poi tornavo a
casa e, con il camino acceso, scrivevo: isolato da tutto, nel silenzio
pressoché totale. Quello che amo di più dei libri (sia quelli letti che
scritti) é l'opportunità dell'estraniamento, dell'allontanamento dalla realtà
contingente talmente satura di questioni pratiche da risolvere quotidianamente
da risultare insopportabile.
MRM: Tra le pagine di questo suo primo
romanzo, si respira la consapevolezza di ciò che è stato, della storia nella
Storia. "(..) La Guerra è uno schifo. Si chiamano a raccolta persone di
estrazione e ceto differente, provenienti da luoghi differenti, con cultura ed
esperienze diametralmente opposte. (..) Una linea viene tracciata: da una parte
e dall'altra le medesime paure, gli stessi occhi spaventati, la stessa
inconsapevolezza..." L'idea di una Guerra sbagliata, ingiusta, che non ha
avuto vincitori, in realtà, ma soltanto sconfitti.
SC: Quando feci la visita di leva, era
il 1985, mi trovai mescolato a persone talmente diverse da me sotto ogni
aspetto, culturale, sociale, economico. Eravamo tardo adolescenti, ossia
individui in divenire, che venivano scaraventati in una caserma dall’aspetto
ostile, a farci misurare testa e corpo da fanatici in uniforme. Certo, era
anche un’opportunità di aggregazione, ma anche una forzatura, specie se
compiuta secondo i meccanismi dell’Esercito.
Le convinzioni espresse in questo libro
nascono da esperienze e riflessioni stratificate in molte fasi della mia vita. A
tredici anni, vidi "Uomini contro" di Francesco Rosi, un film enorme
per un bimbo di quell’età. Tale film mi impressionò tantissimo e fece nascere
in me una serie di riflessioni sulla guerra, sul concetto di eroismo, patria,
bandiera: in famiglia vigeva una cultura destrorsa, dovuta anche al fatto che mio
nonno Vittorio era stato al fronte, aveva combattuto sul Piave, aveva fatto la
Marcia su Roma. Crebbi in quel substrato superomista, machista, che faticavo a
sentir mio, in quanto gracile e dubbioso di tutto. Visitai il sacrario di
Redipuglia, lessi Remarque e Lussu (dal cui libro “Un anno sull’altopiano” è
tratto Uomini contro) che evidenziavano le contraddizioni della guerra. All'università
studiai Storia Contemporanea in modo più analitico, concentrandomi sugli
aspetti economici delle crisi internazionali che portarono alle Guerre Mondiali.
Elaborando tutte queste sollecitazioni, ho maturato la convinzione che la
guerra sia "uno schifo". Ci sono guerre e guerre, é vero, ma resta lo
strumento più abietto per risolvere le controversie. Chi ne è coinvolto, non ha
mai la percezione esatta delle reali motivazioni per cui combatte. Pensi ad un
campo di battaglia: da una parte e dall'altra ci sono individui che non si
conoscono, che avrebbero potuto incontrarsi su una spiaggia, ad un bar, ad una
festa, allo stadio, ad una cerimonia religiosa, alla fermata di un treno.
Eppure devono, ripeto, devono spararsi e uccidersi. Per conquistare un ponte,
una cima, una pianura, un fottuto porto. E permettere ad un gruppo di
imprenditori dell'industria pesante di arricchirsi ulteriormente. Un concetto
schifoso, non trova?
MRM: Ecco, il perché del titolo.
SC: “La pace inquieta”, nasce
dall'inquietudine e dal dolore che permangono nei sopravvissuti, dopo che la
guerra é finita e inizia un supposto periodo di pace. Vedove, mutilati, orfani,
traumatizzati dal fronte. C'é un universo di sopravviventi per i quali la pace
non corrisponde con la serenità. Un gioco in cui non ci sono vincitori.
MRM: Ho molto amato, nel romanzo, il
concetto de "la fosforescenza" che lo stesso Ripamonti confida di
poter trovare nonostante tutto il buio che, un po' per deformazione
professionale, un po' a causa del vissuto personale, si ritrova a masticare
quotidianamente. Mi piacerebbe sapere quanto questo concetto sia condiviso
anche da Lei, Cozzi.
SC: Nonostante i ripetuti episodi
occorsi nella storia dell’umanità inducano a credere che siamo destinati al
male, mi piace nutrirmi dell'ottimismo della fosforescenza; nell’attualità il
male assurge sempre agli onori della cronaca; ma esistono ancora individui,
molti, che operano per il bene; operano oscuramente, ma ci sono e portano
frutti. Penso a chi opera nelle missioni laiche o religiose, agli operatori di
pace, ai dottori di medici senza frontiere, tanto per fare degli esempi.
MRM: Certo, ma penso anche che la
fosforescenza si possa trovare in persone apparentemente comuni che non operano
nel sociale, in persone che vivono la loro vita serenamente e che credono al
'buono', a prescindere. Persone capaci di infondere serenità, capaci di far
sentire a casa l'altro, benché sconosciuto. Il Commissario Ripamonti ne parla
con Carlo Guzzi, il famoso progettista e cofondatore della moto Guzzi:"
(..) Da numerosi giorni, se si eccettua la notte con Diana, non trovava così
piacevole la compagnia di un altro essere umano."
E' un caso, la scelta del noto
progettista di motociclette, come persona piacevole con la quale aprirsi e
trascorrere dei momenti piacevoli e semplici? La fosforescenza qui appare
nitida: quando lei descrive il momento del pranzo tra i due: " (..) Seduto
alla tavola con la tovaglia un po' sdrucita a scacchi bianchi e rossi mentre
Teresa finiva di apparecchiare, Vittorio illustrò a Carlo le doti della cucina
e della cantina di quel posto semplice, come semplici diventavano tutti coloro
che si sedevano ai tavoli: inclusi loro due.", le scatta una foto alla
bellezza del momento. Le cose semplici, le più difficili da trovare, ma che
esistono, come la Sua fosforescenza?
SC: Vero. La normalità degli individui
cela spesso la fosforescenza. Non servono necessariamente atti eroici, di
guerra o di pace. Quest’epoca ci ha così abituati ad estremizzare ogni momento
che abbiamo accettato di essere privati del piacere della normalità. Una sorta
di narcisismo esistenziale, alimentato dai media soffoca il normale quotidiano.
Che, invece, rappresenta il bello del vivere. Rapporti sereni, piccole e grandi
abitudini, la semplicità delle cose.
MRM: Mi piacerebbe concludere questa chiacchierata con lei, soffermandomi
sul ruolo delle donne presenti in questo suo primo romanzo. Nella storia, si
susseguono donne diverse tra di loro, donne il cui aspetto fisico ed il cui
carattere si sviluppano all'interno di un filo conduttore. Ogni donna presente
tra le pagine de “La Pace Inquieta”, viene descritta con un’impronta forse
riconducibile alla fisiognomica; Federica, Martina, Margherita, hanno tutte in
comune il colore biondo dei capelli, gli occhi azzurri, le gambe bellissime,
messe in risalto da calze nere con la riga. Il loro essere, in momenti e modi
diversi all'interno del romanzo, ora fragili ora concrete al momento giusto, o,
come nel caso di Margherita inconsapevole dell'uomo che ha avuto accanto: "(..)
Margherita non mi ha mai conosciuto, né capito (..) continua a sostenere che il
brutto di cui mi circondo mi inghiottirà definitivamente, aberrandomi".
Solo una donna, una figura apparentemente secondaria all'interno della storia,
pare poi in realtà riuscire a dare al Commissario la sensazione di essere
"(..) su un campo sconfinato da esplorare con pazienza. Un campo,
finalmente, non di battaglia, privo di pericoli e dolce.": Diana, capelli
corti e scuri, "(..) gli occhi castani, profondi, allusivi, provocatori…"
E allora ecco che " le cose semplici", si ripropongono. Diana è
la tenutaria di un bordello, una donna che riesce a capire il Nostro
guardandolo negli occhi, senza fargli troppe domande, senza sapere nulla,
effettivamente della sua vita. Diana condivide con lui una notte che servirà a
Ripamonti per illuminare la strada verso lo sviluppo dell'inchiesta.
Cosa mi dice, a riguardo?
SC: Collocare i personaggi femminili
all’interno di questa storia non è stato facile: credo di aver peccato un po’
di modernismo, soprattutto descrivendo Diana. Diana e Martina sono antitetiche
e rappresentano la metafora di un’emancipazione. Entrambe sono ispirate a donne
che ho realmente incrociato nella mia vita, delle quali ho sintetizzato e
amplificato caratteri distintivi della loro personalità: la fragilità per
Martina e la sfrontatezza per Diana. Diana, in particolare, è ispirata ad
un’omonima amica che mi ha espressamente chiesto di figurare essere
rappresentata come tenutaria di bordello! Nel romanzo, questa donna si
distingue dalle altre per autonomia ed intraprendenza. L’essere una maitresse
la libera dai vincoli delle convenzioni di apparenza e comportamento che,
invece, costringono Martina, Margherita e Federica. Vede, c’é una dicotomia di
fondo: la donna bionda, in quanto bionda, è corrispondente ai canoni espressi
dall’immaginario maschile; la metafora di questi canoni sono il legaccio delle
convenzioni alle quali esse si attengono nella storia; la mora è per
definizione a-canonica e quindi può giocare un ruolo da battitore libero nella
vicenda. Diana ride delle convenzioni, perfino di quelle che vorrebbero la
maitresse una megera autoritaria, o di quelle che immaginano che una prostituta
non possa andare a letto con uno sconosciuto frequentatore
del suo bordello senza farsi pagare. Questa suo totale non asservimento alle
convenzioni le permette di osservare la realtà da un punto di osservazione
favorevole, che le permette di cogliere l’essenza di Ripamonti.
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