domenica 20 settembre 2015

Intervista a Simone Cozzi – Maria Rosaria Mollicone





MRM: La Pace Inquieta, come uno scrigno, raccoglie in sé tanti e svariati sentimenti, quante sono le storie e le vite che si intrecciano, si snodano e poi si mescolano al suo interno. Lei, Cozzi, porta per mano il lettore attraverso i luoghi in cui la storia si snoda, rendendolo parte della stessa, con le sue descrizioni minuziose dei paesaggi e delle atmosfere; la magia più grande, di questo scrigno, però, credo sia la capacita di "sentire" i personaggi, via via, nel corso della lettura. Ecco, mi piacerebbe sapere se questo è voluto o se è il suo personale modo di arrivare al cuore "dell'altro", in generale, sempre.
SC: Prima di tutto cerco di arrivare al mio cuore: durante la fase "creativa", quella per intenderci in cui stendo la prima versione del romanzo, mi calo nella storia e vivo in essa, cercando di percepire ciò che il personaggio mi vuole dire. Parlare di introspezione forse é troppo. Ma si può parlare di immedesimazione e di relazione con i personaggi; voglio capirne le emozioni, le aspettative, quello che hanno dietro, anche se poi questo non verrà scritto nel romanzo. Inoltre i protagonisti delle storie che scrivo sono una specie di specchio nella quale rifletto la mia personalità. Specchi in frantumi che, di conseguenza, riflettono confusamente solo parti di me.
MRM: Ovviamente, ogni lettore 'legge', 'vive' un libro in base a quello che è il suo vissuto: ad ognuno di noi è riservata una chiave di lettura differente, soprattutto relativamente ad un giallo, come in questo caso. Però il rendere quasi visibili, come in un film, i protagonisti della storia, è come mettere a suo agio il lettore, come far scegliere a lui ed a lui solo se e quanto essere coinvolto.
Personalmente, ritengo che un bravo scrittore, venga fuori proprio qui, tanto per parafrasare Salinger.
SC: Raccolgo volentieri la lusinga. Ogni libro ha differenti chiavi di lettura. Ne “La pace inquieta” c’è la chiave di lettura pacifista, la chiave poliziesca, forse anche quella sentimentale: sta al lettore scegliere se utilizzarne una sola, o coglierle tutte. Lei parla di film; in effetti il mio modo di scrivere ha un'impronta cinematografica. Vivo di immagini che trasferisco poi su carta. E' un percorso opposto a quello della sceneggiatura, campo nel quale mi piacerebbe prima o poi, cimentarmi.
MRM: Esatto, il suo romanzo si presterebbe facilmente a fotogrammi e primi piani. Il Commissario Ripamonti, ad esempio. E' sicuramente un uomo di altri tempi, un uomo schivo, introverso, elegante, colto, al quale "(..) l'estraniarsi dalla vita sociale (..) permetteva di sprofondare lentamente in un limbo, e ciò lo rendeva quasi insensibile". Mi viene facile associare l'immagine da lei descritta del Ripamonti a quella di un uomo che si distacca dalla realtà per affrontarla dal di fuori, come una sorta di scudo protettivo.
SC: E' quello che cerco di fare quando scrivo. Quando ho scritto “La pace inquieta” vivevo a Mandello del Lario, dove avevo una piccola casa vicina al lago. Soffro di insonnia, così nelle notti di novembre passeggiavo per il paese, immerso nella nebbia o nella pioggia sottile, fumavo sigari toscani e immaginavo scene e personaggi. Poi tornavo a casa e, con il camino acceso, scrivevo: isolato da tutto, nel silenzio pressoché totale. Quello che amo di più dei libri (sia quelli letti che scritti) é l'opportunità dell'estraniamento, dell'allontanamento dalla realtà contingente talmente satura di questioni pratiche da risolvere quotidianamente da risultare insopportabile.
MRM: Tra le pagine di questo suo primo romanzo, si respira la consapevolezza di ciò che è stato, della storia nella Storia. "(..) La Guerra è uno schifo. Si chiamano a raccolta persone di estrazione e ceto differente, provenienti da luoghi differenti, con cultura ed esperienze diametralmente opposte. (..) Una linea viene tracciata: da una parte e dall'altra le medesime paure, gli stessi occhi spaventati, la stessa inconsapevolezza..." L'idea di una Guerra sbagliata, ingiusta, che non ha avuto vincitori, in realtà, ma soltanto sconfitti.
SC: Quando feci la visita di leva, era il 1985, mi trovai mescolato a persone talmente diverse da me sotto ogni aspetto, culturale, sociale, economico. Eravamo tardo adolescenti, ossia individui in divenire, che venivano scaraventati in una caserma dall’aspetto ostile, a farci misurare testa e corpo da fanatici in uniforme. Certo, era anche un’opportunità di aggregazione, ma anche una forzatura, specie se compiuta secondo i meccanismi dell’Esercito.
Le convinzioni espresse in questo libro nascono da esperienze e riflessioni stratificate in molte fasi della mia vita. A tredici anni, vidi "Uomini contro" di Francesco Rosi, un film enorme per un bimbo di quell’età. Tale film mi impressionò tantissimo e fece nascere in me una serie di riflessioni sulla guerra, sul concetto di eroismo, patria, bandiera: in famiglia vigeva una cultura destrorsa, dovuta anche al fatto che mio nonno Vittorio era stato al fronte, aveva combattuto sul Piave, aveva fatto la Marcia su Roma. Crebbi in quel substrato superomista, machista, che faticavo a sentir mio, in quanto gracile e dubbioso di tutto. Visitai il sacrario di Redipuglia, lessi Remarque e Lussu (dal cui libro “Un anno sull’altopiano” è tratto Uomini contro) che evidenziavano le contraddizioni della guerra. All'università studiai Storia Contemporanea in modo più analitico, concentrandomi sugli aspetti economici delle crisi internazionali che portarono alle Guerre Mondiali. Elaborando tutte queste sollecitazioni, ho maturato la convinzione che la guerra sia "uno schifo". Ci sono guerre e guerre, é vero, ma resta lo strumento più abietto per risolvere le controversie. Chi ne è coinvolto, non ha mai la percezione esatta delle reali motivazioni per cui combatte. Pensi ad un campo di battaglia: da una parte e dall'altra ci sono individui che non si conoscono, che avrebbero potuto incontrarsi su una spiaggia, ad un bar, ad una festa, allo stadio, ad una cerimonia religiosa, alla fermata di un treno. Eppure devono, ripeto, devono spararsi e uccidersi. Per conquistare un ponte, una cima, una pianura, un fottuto porto. E permettere ad un gruppo di imprenditori dell'industria pesante di arricchirsi ulteriormente. Un concetto schifoso, non trova?
MRM: Ecco, il perché del titolo.
SC: “La pace inquieta”, nasce dall'inquietudine e dal dolore che permangono nei sopravvissuti, dopo che la guerra é finita e inizia un supposto periodo di pace. Vedove, mutilati, orfani, traumatizzati dal fronte. C'é un universo di sopravviventi per i quali la pace non corrisponde con la serenità. Un gioco in cui non ci sono vincitori.
MRM: Ho molto amato, nel romanzo, il concetto de "la fosforescenza" che lo stesso Ripamonti confida di poter trovare nonostante tutto il buio che, un po' per deformazione professionale, un po' a causa del vissuto personale, si ritrova a masticare quotidianamente. Mi piacerebbe sapere quanto questo concetto sia condiviso anche da Lei, Cozzi.
SC: Nonostante i ripetuti episodi occorsi nella storia dell’umanità inducano a credere che siamo destinati al male, mi piace nutrirmi dell'ottimismo della fosforescenza; nell’attualità il male assurge sempre agli onori della cronaca; ma esistono ancora individui, molti, che operano per il bene; operano oscuramente, ma ci sono e portano frutti. Penso a chi opera nelle missioni laiche o religiose, agli operatori di pace, ai dottori di medici senza frontiere, tanto per fare degli esempi.
MRM: Certo, ma penso anche che la fosforescenza si possa trovare in persone apparentemente comuni che non operano nel sociale, in persone che vivono la loro vita serenamente e che credono al 'buono', a prescindere. Persone capaci di infondere serenità, capaci di far sentire a casa l'altro, benché sconosciuto. Il Commissario Ripamonti ne parla con Carlo Guzzi, il famoso progettista e cofondatore della moto Guzzi:" (..) Da numerosi giorni, se si eccettua la notte con Diana, non trovava così piacevole la compagnia di un altro essere umano."
E' un caso, la scelta del noto progettista di motociclette, come persona piacevole con la quale aprirsi e trascorrere dei momenti piacevoli e semplici? La fosforescenza qui appare nitida: quando lei descrive il momento del pranzo tra i due: " (..) Seduto alla tavola con la tovaglia un po' sdrucita a scacchi bianchi e rossi mentre Teresa finiva di apparecchiare, Vittorio illustrò a Carlo le doti della cucina e della cantina di quel posto semplice, come semplici diventavano tutti coloro che si sedevano ai tavoli: inclusi loro due.", le scatta una foto alla bellezza del momento. Le cose semplici, le più difficili da trovare, ma che esistono, come la Sua fosforescenza?
SC: Vero. La normalità degli individui cela spesso la fosforescenza. Non servono necessariamente atti eroici, di guerra o di pace. Quest’epoca ci ha così abituati ad estremizzare ogni momento che abbiamo accettato di essere privati del piacere della normalità. Una sorta di narcisismo esistenziale, alimentato dai media soffoca il normale quotidiano. Che, invece, rappresenta il bello del vivere. Rapporti sereni, piccole e grandi abitudini, la semplicità delle cose.
MRM: Mi piacerebbe concludere questa chiacchierata con lei, soffermandomi sul ruolo delle donne presenti in questo suo primo romanzo. Nella storia, si susseguono donne diverse tra di loro, donne il cui aspetto fisico ed il cui carattere si sviluppano all'interno di un filo conduttore. Ogni donna presente tra le pagine de “La Pace Inquieta”, viene descritta con un’impronta forse riconducibile alla fisiognomica; Federica, Martina, Margherita, hanno tutte in comune il colore biondo dei capelli, gli occhi azzurri, le gambe bellissime, messe in risalto da calze nere con la riga. Il loro essere, in momenti e modi diversi all'interno del romanzo, ora fragili ora concrete al momento giusto, o, come nel caso di Margherita inconsapevole dell'uomo che ha avuto accanto: "(..) Margherita non mi ha mai conosciuto, né capito (..) continua a sostenere che il brutto di cui mi circondo mi inghiottirà definitivamente, aberrandomi". Solo una donna, una figura apparentemente secondaria all'interno della storia, pare poi in realtà riuscire a dare al Commissario la sensazione di essere "(..) su un campo sconfinato da esplorare con pazienza. Un campo, finalmente, non di battaglia, privo di pericoli e dolce.": Diana, capelli corti e scuri, "(..) gli occhi castani, profondi, allusivi, provocatori…"
E allora ecco che " le cose semplici", si ripropongono. Diana è la tenutaria di un bordello, una donna che riesce a capire il Nostro guardandolo negli occhi, senza fargli troppe domande, senza sapere nulla, effettivamente della sua vita. Diana condivide con lui una notte che servirà a Ripamonti per illuminare la strada verso lo sviluppo dell'inchiesta.
Cosa mi dice, a riguardo?
SC: Collocare i personaggi femminili all’interno di questa storia non è stato facile: credo di aver peccato un po’ di modernismo, soprattutto descrivendo Diana. Diana e Martina sono antitetiche e rappresentano la metafora di un’emancipazione. Entrambe sono ispirate a donne che ho realmente incrociato nella mia vita, delle quali ho sintetizzato e amplificato caratteri distintivi della loro personalità: la fragilità per Martina e la sfrontatezza per Diana. Diana, in particolare, è ispirata ad un’omonima amica che mi ha espressamente chiesto di figurare essere rappresentata come tenutaria di bordello! Nel romanzo, questa donna si distingue dalle altre per autonomia ed intraprendenza. L’essere una maitresse la libera dai vincoli delle convenzioni di apparenza e comportamento che, invece, costringono Martina, Margherita e Federica. Vede, c’é una dicotomia di fondo: la donna bionda, in quanto bionda, è corrispondente ai canoni espressi dall’immaginario maschile; la metafora di questi canoni sono il legaccio delle convenzioni alle quali esse si attengono nella storia; la mora è per definizione a-canonica e quindi può giocare un ruolo da battitore libero nella vicenda. Diana ride delle convenzioni, perfino di quelle che vorrebbero la maitresse una megera autoritaria, o di quelle che immaginano che una prostituta non possa andare a letto con uno sconosciuto frequentatore del suo bordello senza farsi pagare. Questa suo totale non asservimento alle convenzioni le permette di osservare la realtà da un punto di osservazione favorevole, che le permette di cogliere l’essenza di Ripamonti.

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