lunedì 21 dicembre 2015

Intervista ad Eleonora Sottili, autrice del romanzo "Se tu fossi neve" (Giunti ) - Alberto Zuccalà








Com’è nato Se tu fossi neve?
All’inizio avevo una serie di cose molto lontane e differenti tra loro che premevano tutte insieme dentro di me e che si erano andate accumulando e mescolando in un periodo piuttosto lungo. Avevo letto un romanzo molto bello di Johan Harstad Che ne è stato di te, Buzz Aldrin, e da lì mi era presa una specie di fissazione per tutto il racconto dell’allunaggio, dei primi voli spaziali e di quello che era accaduto agli astronauti che per primi erano andati sulla Luna. Nello stesso periodo ho trovato i romanzi di Del Giudice e di Tuena – bellissimi! - sulle esplorazioni artiche dei primi del Novecento. Mi sono appassionata ai diari di Amundsen, Shackleton e Scott. E poi, un po’ per caso, ho scoperto in un articolo di giornale la storia di un artista contemporaneo di New York, Jason Polan, che aveva il progetto di disegnare tutte le persone che incontrava a Manhattan, un progetto ciclopico, inesauribile e però nello stesso tempo totalmente privo di significato. Tra tutti questi elementi, seppure distanti tra loro, sentivo delle costanti, la solitudine, il coraggio e la determinazione, e sapevo di voler scrivere un romanzo che partisse da questo, così ho cominciato a pensare a una storia che poi è diventata Se tu fossi neve

Che cosa ti ha guidato nella scrittura del romanzo?
Le immagini. Ho lavorato moltissimo con le immagini. All’inizio con i disegni di Jason Polan, andandoli a vedere su google e cercando di immaginarlo mentre li faceva, dove si appostava. Lui non si fa mai scoprire quando disegna qualcuno, e perciò lo pensavo in un angolo, con il blocchetto in mano. Ho iniziato a domandarmi che tipo fosse e perché stava facendo questo progetto, e piano piano è venuta fuori la sua storia. Ho pensato che disegnasse tutte le persone di New York per ritrovare l’unica di cui si era innamorato, una ragazza vista di sfuggita durante un flashmob di Charlie Todd.
Mi ha anche aiutato la mappa di New York, ovviamente, perché i miei personaggi si muovono lungo le strade e in qualche modo si sfiorano continuamente fino al momento in cui si incontrano. Mi serviva guardare la cartina dall’alto e immaginarmeli mentre si spostavano.
Infine ho utilizzato le fotografie delle viaggi polari, che tra l’altro sono bellissime e consiglio a tutti di andarle a vedere, in particolare quelle della spedizione di Shackleton.  

Il romanzo si apre con un flashmob di Charlie Todd, una sorta di performance dove viene chiesto a 207 persone di bloccarsi nell’androne della Grand Central Station per due minuti. Come mai questa scelta?
L’incipit di questo romanzo è stata davvero la cosa che ho scritto per prima e che ho modificato in seguito pochissimo. Charlie Todd fa queste performance in cui appunto congela le persone, o fa salire gli eroi di Star Wars sulla metropolitana, oppure organizza una battaglia di pistole ad acqua in Central Park. Sono a mio parere tentativi di rompere la linea tra realtà e finzione, di dimostrare quanto in effetti sia sottile, e questo io lo trovo molto interessante e anche divertente. Quando ho visto il video della Grand Central congelata mi ha colpito moltissimo. Lì per lì non l’ho capito subito, ma adesso, a romanzo finito, mi rendo conto che quella situazione di immobilità in cui hai molte persone che stanno per fare qualcosa, per andare da qualche parte e non sai ancora cosa accadrà, è esattamente la situazione che si ha prima di iniziare a scrivere una storia. Calvino diceva che iniziare una storia significa prima di tutto rinunciare a tutte le altre possibili, ed è proprio quello che accade nel mio incipit. Quando il flashmob termina, allo scadere dei due minuti e mezzo, e tutta la gente radunata nella Grand Central ricomincia a camminare, io seguo Charlie e Jason, decido che è la loro la storia che voglio raccontare.


In questo romanzo si seguono tre personaggi, Jason appunto, Alice, una ragazza che è venuta a New York scappando da una situazione sentimentale e professionale disastrosa, e Zadie, una ragazzina di undici anni che vuole andare al Polo Sud. Cosa comporta raccontare parallelamente tre vicende?
È stato molto diverso scrivere questo romanzo rispetto al primo, Il futuro è nella plastica, in cui appunto avevo un unico protagonista. In Se tu fossi neve ho dovuto tenere un’unità di tempo e di spazio molto strette, tutta la storia si svolge nell’arco di meno di una settimana a Manhattan, e poi ho utilizzato dal primo momento un montaggio alternato, che nel progressivo sviluppo della vicenda diventa sempre più serrato per precipitare verso il finale, il momento della Tempesta Perfetta in cui i destini dei tre personaggi si incrociano. La struttura era molto importante perché tutti i momenti dovevano incastrarsi perfettamente, quindi ci ho dovuto lavorare parecchio.

Perché hai deciso di fare intrecciare le storie di Jason, Alice e Zadie proprio durante una tempesta di neve?
Mi piaceva innanzitutto capire cosa accadesse a una città come New York, una metropoli moderna ed efficiente, quando all’improvviso tutti i parametri venivano sconvolti da un evento naturale. E poi mi piaceva calare i miei protagonisti in una situazione simile a quella degli esploratori dei primi del Novecento, metterli in qualche modo a confronto con le paure più primitive - il buio, il freddo, la solitudine -, e che proprio in questa situazione emergesse ancora di più il loro desiderio di vivere. È questo soprattutto che li fa cambiare, che li rende capaci di superare i loro limiti, la consapevolezza di avere un desiderio fortissimo di vivere.

Due parole sul finale?
Nel finale, che si chiude con un nuovo flashmob di Charlie, ritroviamo tutti i personaggi della storia, sappiamo quello che è accaduto a ognuno, ma soprattutto siamo di nuovo in una situazione come quella iniziale, perché al segnale di Charlie tutti si immobilizzano, questa volta a Central Park in una notte di estate, e il romanzo finisce come comincia, con una folla di persone immobilizzate per qualche minuto.
In questa scena tornano molti personaggi che c’erano nell’incipit, quelli di cui si era deciso di non raccontare la storia, tipo il reverendo che scopre le stelle morenti e sua moglie, l’uomo delle pulizie. Compaiono di nuovo la giapponese, il ragazzo con la bottiglia d’acqua e uno della famiglia dei pakistani. Per me rimetterli nella scena conclusiva era tornare alla situazione iniziale, a quella stessa possibilità del molteplice di cui parla Calvino, una specie di zoomata all’indietro in cui Zadie, Jason e Alice si perdono nella folla e diventano di nuovo possibili tutte le altre storie da raccontare. 



Nessun commento:

Posta un commento